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Intervista a Michele Gesualdi del 20 giugno 2017

L’intervista di Mario Lancisi a Michele Gesualdi sul Corriere Fiorentino del 20 giugno.

Michele Gesualdi, l’allievo:
«A fatica, ma io ci sarò»

L’allievo di don Lorenzo Milani: scrivo sui foglietti, anche lui quando era malato comunicava così

«Papa Francesco che si inginocchia sulla tomba del sacerdote don Lorenzo è una grande gioia per chi, come noi ex suoi ragazzi, gli abbiamo voluto bene. Noi sappiamo quanto il priore ha sofferto per essere stato emarginato e ci ricordiamo bene il suo tormento per non essere mai stato onorato dalla Chiesa. Che anzi non ha perso occasione per considerarlo fuori dalle linea ufficiale e metterlo a tacere…». Michele Gesualdi, 73 anni, forse l’allievo prediletto di don Lorenzo Milani, presidente dell’omonima fondazione, autore nei mesi scorsi di un libro molto fortunato sull’esilio a Barbiana del priore, è malato. Parla con grande fatica, lui che è stato educato da don Milani alla passione per la parola. «Quando scoprii di avere la Sla, le scrissi: “Caro male, lo so che vincerai, mi tormenterai e mi sopprimerai, ma sconfiggerai il corpo non lo spirito e le idee. Non contento di questa tua vittoria dopo di me ne aggredirai altri. Ma è questione di tempo e anche tu sarai vinto, perché il male perde sempre e io avrò dato il mio contributo. A me importa ancora». La voce di Michele è metallica, l’orecchio allenato della figlia Sandra riesce a capirla e quando non ce la fa i due dialogano con dei fogliettini. Un po’ come successe a don Milani: «Eh sì, una similitudine singolare, la nostra. Anche il priore quando non ce la faceva più a parlare per la malattia comunicava con piccoli foglietti», ricorda Michele.

Ha detto: «A me importa ancora», mutuando l’I care della vostra scuola. E così oggi, nonostante la malattia, sarà a Barbiana assieme agli ex allievi del priore e incontrerà Papa Francesco. Quale è il senso di questa storica visita?

«Credo che la visita di Papa Francesco vada ben oltre la riabilitazione dell’uomo e del prete Milani e che abbia un significato molto più importante per la Chiesa di oggi. È l’indicazione di una Chiesa che deve camminare fuori dai palazzi dei poteri e delle cattedrali, e che deve stare in mezzo ai poveri esclusi dalla società, nelle periferie dimenticate come fu Barbiana. Don Lorenzo in quella trincea trova il suo Gesù che ha mani callose e i volti scavati dalla fatica e trasforma quel niente in popolo di Dio. Scriverà al regista francese Maurice Cloche: “Il disoccupato e l’operaio oggi dovranno avere la certezza che Gesù è vissuto in un mondo triste come loro, che ha sentito come loro che l’ingiustizia sociale è una bestemmia e come loro ha lottato per un mondo migliore».

La Chiesa in cosa ha sbagliato?

«A non considerarlo della sua famiglia. Invece lui, fin dal seminario, considerava la Chiesa la sua nuova famiglia che mai avrebbe abbandonato, perché solo lei aveva il potere di perdonargli i peccati e salvargli l’anima. È stata miope, la Chiesa, a non comprendere la grandezza di un vero sacerdote così appassionato di Dio. Al momento della conversione Dio lo aveva già completamente trasformato facendone un suo autentico testimone, ministro e combattente a fianco degli ultimi».

A distanza di così tanti anni c’è qualcosa che sente di rimproverare a don Lorenzo?

«Rivendicava per noi ragazzi la sua stessa coerenza tra gli ideali e l’agire quotidiano con la differenza che lui aveva spalle forti per sostenerla. Le nostre invece erano un po’ più debolucce. È l’accusa che gli feci quando andai via da Barbiana per andare a lavorare a Milano dove, sostenendo i valori e gli ideali appresi dal priore, cominciai a battere la testa nel muro. Ma lui mi rispose che “era meraviglioso da vecchi prendere una legnata da un figliolo, perché è segno che quel figliolo è già un uomo e non ha più bisogno di balia, ed è qui è il fine ultimo di ogni scuola: tirar su dei figlioli più grandi di lei, così grandi che la possono deridere. Solo allora la vita di quella scuola o di quel maestro ha raggiunto il suo compimento e nel mondo c’è progresso».

Papa Francesco a Barbiana è solo con il suo coraggio oppure ritiene che il suo gesto sia compreso da tutta la Chiesa?

«Il fatto che sia stato Papa Francesco a considerare decaduto il decreto di condanna di Esperienze pastorali e sia venuto a pregare sulla sua tomba, mi fa dire che ha chiari i suoi valori, la sua opera pastorale. Il resto della Chiesa cammina più lentamente e dà l’impressione di gettare una colata di miele sulle ferite. Va però riconosciuto all’arcivescovo Betori di aver dato un buon contributo per far emergere l’originalità di don Lorenzo».

Che ne sarà di don Milani e di Barbiana dopo la visita del Papa?

«Il rischio è che ci possa essere chi vuol mettere le mani sopra Barbiana per curiosità turistica o peggio ancora per mercificare e idolatrare i luoghi e don Lorenzo. Chiederò a Papa Francesco che faccia arrivare un messaggio chiaro affinché Barbiana rimanga luogo di preghiera profonda, di studio attivo e di sofferenza racchiusa in quella povertà intatta. D’altra parte spero che don Lorenzo diventi esempio da seguire nella Chiesa con azioni concrete a favore degli emarginati e a difesa della loro dignità. Non solo con chiacchiere e cerimonie».

C’è chi lo vorrebbe santo…

«Don Lorenzo non è un uomo da fermare con un’aureola ma va lasciato camminare con i tanti santi di strada, insieme ai suoi poveri, senza neutralizzare la sua forza».

Lei ha vissuto, assieme al fratello Francuccio, in canonica con don Milani. Come era il priore quando non faceva scuola?

«Era un uomo generoso, gioioso, allegro che non faceva mai pesare nulla sugli altri. Collaborava nella conduzione della casa e ci coinvolgeva sempre su ogni questione. Considerava la sua famiglia di Barbiana con dolcezza e intelligenza, ci seguiva e curava. Non leggeva mai nulla da solo, ma sempre insieme a noi ragazzi, dal giornale alla posta, e chiamava anche l’Eda e la nonna Giulia. Era anche un po’ goloso. Non gli dispiacevano i crostini e la maionese che Eda preparava. Poi la mattina si alzava verso le 6 e si metteva, almeno nei primi anni, ad ascoltare dischi in ebraico per imparare la lingua. Poi alle 6,30 tutte le mattine celebrava messa alla quale partecipava l’Eda. Infine la sera, dalle nove a mezzanotte recitava il breviario».

 

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